Con la sentenza n. 157 del 2021 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 Cost., dell’art. 79, comma 2, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (t.u. spese di giustizia), nella parte in cui non consente al cittadino di uno Stato non aderente all’UE di presentare, a pena di inammissibilità, una dichiarazione sostitutiva di certificazione sui redditi prodotti all’estero, qualora dimostri – provando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo correttezza e diligenza – l’impossibilità di produrre la richiesta documentazione, poiché è irragionevole e lesivo dei principi di tutela giudiziale che sia addebitato al medesimo richiedente anche il rischio dell’impossibilità di procurarsi la specifica certificazione richiesta.
Il caso
Il Tar Piemonte sollevava, in riferimento agli artt. 3, 24, 113 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione sia all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, sia all’art. 3, comma 3, del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 79, comma 2, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), nella parte in cui non prevede che, nei casi di impossibile produzione dell’attestazione consolare, i cittadini di Stati non appartenenti all’UE possano produrre forme sostitutive di certificazione, in analogia agli istituti previsti dall’ordinamento nazionale, qualora dimostrino di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza per ottenere la prevista attestazione consolare.
L’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia stabilisce, infatti, che per i redditi prodotti all’estero, il cittadino di Stati non appartenenti all’UE correda l’istanza con una certificazione dell’autorità consolare competente, che attesta la veridicità di quanto in essa indicato.
Secondo il Collegio rimettente, se l’esclusione dal patrocinio a spese dello Stato di uno straniero non abbiente, cittadino di un Paese non appartenente all’UE, viene a dipendere dall’inerzia di un soggetto pubblico terzo, non sopperibile con gli istituti di semplificazione amministrativa e decertificazione documentale previsti, invece, per i cittadini italiani e dell’UE, si determina un irragionevole vulnus al principio di eguaglianza nell’accesso alla tutela giurisdizionale. In particolare, la norma censurata si sarebbe posta irragionevolmente in contrasto con l’effettività del diritto alla tutela giurisdizionale, violando gli artt. 3, 24, 113 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 47 CDFUE, poiché avrebbe svuotato tale diritto della sua portata sostanziale in conseguenza dell’inerzia degli apparati amministrativi degli uffici consolari dei Paesi non appartenenti all’UE. La disposizione, pertanto, avrebbe leso il principio di autoresponsabilità, riconducibile alla ragionevolezza, di cui al citato art. 3 Cost., là dove avrebbe addossato al richiedente le conseguenze sfavorevoli di un comportamento a lui non riferibile.
La decisione della Corte costituzionale
La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia per violazione dell’art. 3 Cost., in coordinamento con gli artt. 24 e 113 Cost., nella parte in cui non prevede che i cittadini di Stati non aderenti all’UE possano presentare forme sostitutive di certificazione, comprovando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza per ottenere la prevista attestazione consolare, la cui allegazione risulta, pertanto, impossibile. Al riguardo è stato adottato un intervento additivo, che in effetti rinviene nell’ordinamento precisi punti di riferimento sia nell’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia sia nell’art. 16 del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, che richiama espressamente il citato art. 94.
Ad avviso della Consulta, l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia palesa rilevanti distonie, posto che, avvalendosi del mero criterio della cittadinanza, richiede, stando alla sua lettera, la certificazione dell’autorità consolare competente per i redditi prodotti all’estero solo ai cittadini di Stati non aderenti all’UE e non anche a quelli italiani o ai cittadini europei, che pure possano aver prodotto redditi in Paesi terzi rispetto all’UE; al contempo, la medesima disposizione sembra pretendere dai cittadini degli Stati non aderenti all’UE la certificazione consolare per qualsivoglia reddito prodotto all’estero, compresi quelli realizzati in Paesi dell’Unione. Ma soprattutto, anche a voler prescindere da tali anomalie, non può tacersi la manifesta irragionevolezza che deriva dalla mancata previsione, nell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia, per i processi civile, amministrativo, contabile e tributario, di un meccanismo che – come, viceversa, stabilisce per il processo penale l’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia – consenta di reagire alla mancata collaborazione dell’autorità consolare, così bilanciando la necessità di richiedere un più rigoroso accertamento dei redditi prodotti in Paesi non aderenti all’UE, per i quali è più complesso accertare la veridicità di quanto dichiarato dall’istante, con l’esigenza di non addebitare al medesimo richiedente anche il rischio dell’impossibilità di procurarsi la specifica certificazione richiesta.
Ha evidenziato la Corte che la distinzione tra processo penale e altri processi (civile, amministrativo, contabile e tributario) può giustificare, dunque, che vengano ritenute non irragionevoli, se correlate alle diverse caratteristiche e implicazioni dei vari processi, talune differenziazioni nella disciplina del patrocinio a spese dello Stato. Tuttavia, tale dicotomia non può in alcun modo legittimare, rispetto ai parametri costituzionali invocati, la mancata previsione di un correttivo, nell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia, che permetta di superare l’ostacolo creato dalla condotta omissiva, o in generale non collaborativa, dell’autorità consolare. La disposizione censurata, infatti, in contrasto con la ragionevolezza e con il principio di autoresponsabilità, inficia la possibilità di un accesso effettivo alla tutela giurisdizionale, facendo gravare sullo straniero proveniente da un Paese non aderente all’UE il rischio dell’impossibilità di produrre la sola documentazione ritenuta necessaria, a pena di inammissibilità, per comprovare i redditi prodotti all’estero. Più precisamente, la norma censurata sottende, secondo il diritto vivente, una presunzione che lo straniero abbia redditi all’estero. Tale presunzione implica un onere gravoso, specie quando la prova abbia un contenuto negativo, poiché tali redditi in effetti non sussistono, il che può ritenersi ipotesi non rara, se è vero che spesso è proprio lo stato di indigenza ad indurre le persone ad emigrare. Inoltre, sempre la norma censurata consente di vincere la presunzione solo con le forme documentali da essa previste, vale a dire con la certificazione dell’autorità consolare competente, prescindendo dall’eventuale esistenza di altre prove circa l’effettiva consistenza dei propri redditi all’estero. Ed inoltre, e questo è il profilo che palesa nella maniera più evidente il vulnus costituzionale, l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia fa gravare sull’istante il rischio del fatto del terzo (ossia l’autorità consolare), la cui eventuale inerzia o inadeguata collaborazione rendano impossibile produrre tempestivamente la corretta certificazione richiesta.
In definitiva, contrasta con gli artt. 3, 24 e 113 Cost. una previsione, come quella della norma censurata, che fa gravare sull’istante il rischio della impossibilità di produrre una specifica prova documentale richiesta per ottenere il godimento del patrocinio a spese dello Stato; essa, infatti, impedisce – a chi è in una condizione di non abbienza – l’effettività dell’accesso alla giustizia, con conseguente sacrificio del nucleo intangibile del diritto alla tutela giurisdizionale.
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